ISTRIA, FIUME, DALMAZIA, VENEZIA GIULIA                 


NOI ISTRIANI: PERCHE' CON LA REPUBBLICA SOCIALE
Fulvio Farba
 
 
    Si era in ballo e bisognava continuare a ballare, fino all'ultimo, e se ci si fermava, tre anni e mezzo di sacrifici e sofferenze venivano buttati al vento, e poi si era data la parola e la si doveva rispettare. Il ritiro dalla lotta avrebbe lasciato l'Italia in mani germaniche, abbandonata alla vendetta di un infuriatissimo Hitler, con conseguenze facilmente immaginabili. No, non si poteva, bisognava continuare la lotta a fianco dei Germanici, anche se si sapeva, si capiva che la guerra era perduta, ma si trattava di perderla con onore, di finire in bellezza, da combattenti e non da traditori.
    Questo, in parole povere, il succo, il concentrato di quanto dichiararono coloro che, senza esitazioni e senza perplessità alcuna, si schierarono sin dall'inizio in favore della R.S.I., che ripresero o non abbandonarono mai le armi e che si avviarono coscientemente per una strada ignota, cosparsa di rischi e di pericoli, in fondo alla quale c'era, ad attendere, non ricompense, non onori, non prebende e riconoscimenti di merito, ma una croce, una semplice croce di legno, e talvolta neanche quella, su una fossa anonima oppure una foiba; se eri fortunato, trovavi la prigionia, la derisione, il marchio che ti bollava come Fascista, irriducibile e pericoloso.
    Eppure ci furono -e non furono pochi -coloro che imboccarono quella strada, e che noi vogliamo ricordare, tutti, cinquant'anni dopo, vivi e Morti.
    Per comodità, possiamo dividere queste persone in tre categorie, in tre gruppi, e precisamente: i fascisti che non intendevano a nessun costo abbandonare la vecchia bandiera, per fedeltà e coerenza con se stessi e con gli altri; coloro che respingevano l'armistizio e rifiutavano il tradimento e, specialmente i giovani, imbracciavano le armi per quell'astrattismo che veniva definito "Onore d'Italia" e che per certa gente costituisce ancora oggi una bestemmia; infine coloro che ritenevano necessario aderire alla nuova Repubblica per la salvaguardia della Nazione e la difesa dei suoi cittadini dal nemico anglo-sassone, ma anche dalla prepotenza germanica.
    Queste, senza espressioni retoriche, le motivazioni valide per tutti gli Italiani, e di per sé già sufficienti a spiegare una scelta; ma per gli Istriani, per i Giuliani che accorsero nelle file repubblicane esisteva anche un'altra ragione, non meno importante, anzi, e cioè la necessità di difendere la propria terra, la propria casa, le proprie famiglie e la propria vita dall'invasione jugoslava, da quei partigiani titini che bisognava tenere a tutti i costi lontani, oltre le Alpi.
    Era una magnifica preda, la Venezia Giulia, bramata dagli Slavi da secoli, e loro sfuggita nel 1918, al crollo dell'Impero AustroUngarico del quale erano stati fedeli servitori sino all'ultimo istante. Ed ora, dopo il tradimento badogliano che sfasciò il Regio Esercito e permise l'entrata delle bande in Istria, il momento era venuto, e gli slavi sfogarono nei massacri e negli infoibamenti, il loro odio secolare.
    Bisognava difendersi, bisognava evitare che i massacri si ripetessero, che le scorrerie slave continuassero, e per difendersi, naturalmente, bisognava unirsi, raggrupparsi dietro una bandiera, che non poteva essere che il tricolore. Il tricolore che solo i reparti fascisti, i reparti della Repubblica Sociale facevano ancora sventolare. Anche molti antifascisti, e degli afascisti, capirono ed interpretarono nella giusta maniera l'assiomatica tesi: o con noi, o contro di noi! E per essere contro gli Slavi non c'era altra strada che inquadrarsi nei reparti fascisti.
    Non bisogna dimenticare che il principale nemico degli Istriani è, ed è sempre stato, lo Slavo, arrivato dalle pianure sarmatiche o da quelle iraniane alla fine del VI' secolo nella Balcania settentrionale, e da allora sempre in affannosa spinta verso il mare, verso l'Adriatico, quell'Adriatico dal quale fu tenuto lontano dalle milizie venete, appoggiate da Istriani e Dalmati, dislocate per secoli in quelle terre.
    Ai tempi del dominio asburgico, i nostri antagonisti irriducibili, i nostri avversari inconciliabili furono gli Slavi -Croati o Sloveni che fossero- più degli Austriaci, che pure esercitavano con brutalità e prepotenza il loro diritto di dominio. Gli Austriaci vennero odiati soprattutto perché tentarono di soffocare la nostra nazionalità, proteggendo e sostenendo quella slava, ligia ed ossequiente alla politica viennese.
    I giorni tristi che seguirono l'8 settembre in Istria approfondirono maggiormente il solco che divideva Italiani e Slavi, solco nel quale scorse a fiumi il sangue italiano.
    Di fronte alla ferocia slava, agli eccidi commessi dalle bande di Tito, non può destare alcuna meraviglia il fatto che gli Istriani accogliessero come liberatori i germanici, i quali ricacciarono oltre le Alpi, oltre Fiume, gli invasori balcanici.
    Dovunque gli Istriani si unirono e si armarono per difendere se stessi e le loro famiglie e per evitare il ripetersi di eccidi e violenze slave, essi costituirono dei Fasci, posizione nei confronti dei germanici; questi gruppi armati, successivamente, confluirono nel Reggimento "Istria" della Milizia Difesa Territoriale.
    Ci sono ancora oggi degli ""itagliani"" che ci rimproverano sia l'adesione alla R.S.I. sia l'appoggio dato alle truppe germaniche, affermando con sicumera che gli Istriani "collaborazionisti con il Tedesco invasore" si sono battuti per far diventare le loro terre una provincia germanica.
    Sono balle! Certo, fu una triste sorpresa l'istituzione di quel Litorale Adriatico, o Adriatisches Kustenland di asburgica memoria, che separò di fatto, ma non di diritto e senza che venisse proclamata alcuna annessione, (e questo sia ben chiaro, va ripetuto più volte per certe anime belle con la testa più dura della durissima pietra dell'Istria) la Venezia Giulia dal resto d'Italia, ma gli Istriani, pur opponendosi con ogni mezzo alle pretese germaniche, preferirono combattere a fianco del vecchio alleato piuttosto che sottomettersi agli Slavi; e, checché ne dicano oggi le Maddalene pentite che a suo tempo ostentarono la stella rossa sulla "titovka" (la bustina dei titini) per riciclarsi poi in comunisti indipendentisti del Territorio Libero di Trieste, e successivamente
in comunisti italiani e poi pidiessini, non furono mai servi dei Germanici, al contrario di loro, di quei cosiddetti partigiani italiani della brigata Garibaldi del Friuli e della Venezia Giulia, che accettarono i programmi annessionistici di Tito sin dal 1943, o fors'anche prima, obbedendo alla volontà di Mosca.
    La minaccia germanica esisteva, era reale, ma era certamente meno pericolosa di quella slava per il futuro della Venezia Giulia, e si supponeva di poterla affrontare senza eccessivi timori (c'era sempre il Duce, che avrebbe potuto rintuzzare la minaccia austriaca servendosi di Hitler, che nonostante tutto gli si sentiva ancora legato, come il discepolo al Maestro), mentre si temeva e si combatteva la minaccia slava, della cui pericolosità gli infoibamenti dell'autunno del 1943 avevano dato un esempio.
 
 
 Bersagliere Repubblicano in Venezia Giulia
 
 
    Avevamo visto, e meglio ancora avremmo visto in futuro, come gli Slavi, nei nostri confronti, erano sempre disposti a fare un fronte unico; titini, ustascia, domobranci, cetnici, mettevano da parte, temporaneamente si capisce, il loro reciproco fanatico odio che li spinge a scannarsi (allora come oggi) con ferocia più unica che rara, allorché si trattava di fronteggiare gli Italiani.
    Un solo esempio valga a conferma: potremmo citarne ancora tanti, ma sarebbe un ripetersi continuo. Nel 1944, nella provincia di Gorizia, alcuni paesi situati nella parte settentrionale e nordorientale del territorio, paesi abitati da popolazioni slave, i Germanici sistemarono dei presidi di "domobranci" sloveni, anticomunisti. I partigiani titini dislocati nella zona non spararono un solo colpo contro di essi per tutto il tempo della permanenza. Allorché alpini italiani ne presero il posto, giornalmente vi furono attacchi e scontri, per iniziativa partigiana, sia ben chiaro. Era una prova del fatto che "nessun jugoslavo doveva venire ucciso o ferito da un- altro jugoslavo"!
    Fino all'ultimo rimasero al loro posto i "repubblichini", istriani e no, fronteggiando gli Slavi, anche mentre le truppe germaniche abbandonavano la Venezia Giulia nel tentativo di raggiungere la loro Patria, invasa dal nemico da oriente e da occidente; fino all'ultimo si batterono, sperando nell'arrivo delle truppe alleate, o magari di soldati italiani del Sud, che avrebbero per lo meno preso sotto la loro protezione i civili italiani.
    Fu una vana speranza. La piazzaforte di Pola fu consegnata ad un reparto "regolare" dell'Esercito Popolare di Liberazione Nazionale Jugoslavo dagli uomini della Decima, agli ordini dei Capitano di Corvetta Stefano Baccarini. Ma il fatto che gli occupanti facessero parte dell'esercito regolare fu ininfluente, i marò vennero massacrati o deportati ugualmente.
    L'ultima volta che la bandiera italiana sventolò sulla piazzaforte di Pola a dimostrarne la sua appartenenza all'Italia fu il 4 maggio 1945, ed era un tricolore con l'aquila repubblicana, issato sull'antico castello veneziano.
 
 
NUOVO FRONTE N. 159. Dicembre 1995. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)                                   
ATTUALITA' DELL'ESODO
Claudio Schwarzenberg
 
 
    E' passato in sordina, anzi è stato totalmente ignorato dai nostri usuali mezzi di informazione, l'infausto anniversario (10 febbraio) di quello che falsamente si volle chiamare Trattato di pace, ma che fu invece un vero e proprio diktat che costò alla Patria la perdita delle italianissime terre di Fiume, dell'Istria e della Dalmazia.
    Nello stesso modo, da quasi cinquant'anni, nei nostri libri di storia in uso nelle scuole non una pagina viene dedicata all'esodo di coloro che, dal 1945 in poi, a ondate successive si riversarono in Italia con tutti i mezzi possibili: vecchi piroscafi, macchine sgangherate, treni di fortuna, carri agricoli, barche, a nuoto e a piedi.
    Una grande fuga per restare italiani, un vero e proprio esodo biblico, l'affrontato con serena determinazione, verso un'Italia sconfitta e semidistrutta quale reazione naturale al violento tentativo di una cruenta snaturalizzazione voluta, proprio cinquanta anni fa, nella primavera del 1945, dalla ferocia dei partigiani slavi. "Non è certo il caso di restare a Pola - leggiamo nel verbale del Comitato di Liberazione Nazionale di Pola del 27 dicembre 1946 - per fare da cavie, sacrificandosi per fare opera di italianità, come qualcuno ha detto a Roma. Nella Capitale non si ha un'idea di cosa succede in Istria. Il pericolo è grande di fronte all'inerzia del governo. La popolazione di Pola è angosciata e domanda se potrà salvarsi".
    Improvvisamente l'Istria. Fiume e la Dalmazia furono oscurate dall'ombra livida di un destino terribilmente incerto e rosso di sangue innocente. La gente era bloccata dalla paura dei rastrellamenti improvvisi, delle delazioni, delle vendette e delle notizie terrificanti che cominciavano a filtrare di infoibamenti, di affogamenti e di fucilazioni che la giustizia sommaria di sedicenti tribunali del popolo erogava a tutti coloro che apparivano colpevoli di essere e di sentirsi italiani.
    Le città cominciarono a svuotarsi. Da Fiume fuggirono 54 mila su 60 mila abitanti, da Pola 32 mila su 34 mila, da Zara 20 mila su 21 mila, da Capodistria 14 mila su 15 mila.
    Soltanto l'esodo degli abitanti di Pola si svolse sotto la protezione inglese con navi italiane. Tutti gli altri istriani, fiumani e dalmati dovettero abbandonare le loro case e i loro averi sotto il controllo poliziesco dei partigiani slavi. Coloro che ottenevano il visto per la partenza potevano portare in Italia solo 5 kg. di indumenti e 5 mila lire.  Dopo lunghe settimane di attesa e dopo ripetuti e implacabili controlli, si poteva caricare se stessi e le proprie cose su un convoglio diretto al confine, cioè verso la libertà.
    Il viaggio era breve, ma diventava lungo per le continue verifiche dell'Ozna (la famigerata polizia segreta) che aveva occhi e orecchi, attraverso traditori e delatori, fino a Trieste.
    "Nessuno - ha scritto Amleto Ballarini - era mai certo, partendo, di arrivare alla meta. C'era sempre qualche infelice, ad ogni viaggio, che doveva scendere senza fiatare con tutti i suoi miseri bagagli, stretto da due agenti, e gli altri, muti, stavano là a guardarlo dai finestrini del treno mentre s'allontanava, curvo come Cristo sotto il peso della croce".
    A moltissimi il visto venne negato per ragioni politiche, per vendetta, per odio, per non privarsi di personale specializzato, ma soprattutto perché ogni partenza era la conferma di una condanna senza appello per il nuovo regime.
    Da qui ebbero inizio le fughe drammatiche, di giorno e di notte, fra le doline del Carso, attraverso passaggi clandestini fino ad allora noti solo ai più esperti contrabbandieri, fughe verso la libertà che molto spesso si concludevano con una raffica di mitra, con lo scoppio di una mina o sul filo spinato. Alcuni coraggiosi affrontarono l'Adriatico con fragili barche a remi e raggiunsero le coste italiane stremati dalla fatica e dalla sete, con le mani spellate e sanguinanti. Spesso però l'approdo rimase un sogno: catturati dalle motovedette slave, parecchi furono condannati a lunghi anni di lavori forzati. Non mancarono esempi più cruenti quando la spiaggia romagnola e marchigiana restituiva le salme dei fuggiaschi travolti da un'improvvisa bufera.
    Ma tutto era meglio, anche il rischio di morire, piuttosto che cadere nelle mani della polizia titina.
    Oltre 500 fiumani furono impiccati, fucilati, strangolati, affogati. Altri incarcerati. Dei deportati non si seppe più nulla. Cercarono subito gli ex legionari dannunziani, gli irredentisti della prima guerra mondiale, i mutilati, gli ufficiali, i decorati e gli ex combattenti. Adolfo Landriani era il custode del giardino di piazza Verdi: non era fiumano, ma era venuto a Fiume con gli Arditi e per la sua piccola statura tutti lo chiamavano Maresciallino
    Lo chiusero in una cella e gli saltarono addosso in quattro o cinque, imponendogli di gridare con loro "Viva la Jugoslavia!". Lui, pur così piccolo, si drizzò sulla punta dei piedi, sollevò la testa in quel mucchio di belve, e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: "Viva l'Italia!".
    Lo sollevarono, come un bambolotto di pezza, e lo sbatterono contro il soffitto, più volte, con selvaggia violenza e lui ogni volta: "Viva l'Italia! Viva l'Italia!" sempre più fioco, sempre più spento, fin che il grido non divenne un bisbiglio, fin che la bocca colma di sangue non gli si chiuse per sempre.
    Qualcuno morì più semplicemente per aver ammainato in piazza Dante la bandiera jugoslava. Il 16 ottobre del 1945, un ragazzo, Giuseppe Librio, diede tutti i suoi diciott'anni, pur di togliere il simbolo di una conquista dolorosa. Lo trovarono il giorno dopo, tra le rovine del molo Stocco, ucciso con diversi colpi di pistola.
    Nel carcere di Fiume il 9 ottobre 1945 Stefano Petris scrisse il suo testamento sui fogli bianchi dell'Imitazione di Cristo":
    "... Non piangere per me. Non mi sono mai sentito così forte come in questa notte di attesa che è l'ultima della mia vita. Tu sai che io muoio per l'Italia. Siamo migliaia di italiani, gettati nelle foibe, trucidati e massacrati, deportati in Croazia e falciati giornalmente dall'odio, dalla fame, dalle malattie, sgozzati iniquamente. Aprano gli occhi gli italiani e puntino i loro sguardi verso questa martoriata terra istriana che è e sarà italiana.
    Se il tricolore d'Italia tornerà, come spero, a sventolare anche sulla mia Cherso, bacialo per me, assieme ai miei figli. Domani mi uccideranno: non uccideranno il mio spirito, né la mia fede. Andrò alla morte serenamente e come il mio ultimo pensiero sarà rivolto a Dio che mi accoglierà e a voi, che lascio, così il mio grido, fortissimo, più forte delle raffiche dei mitra, sarà: Viva l'Italia!". A nessuno di questi eroi, semplici e sconosciuti, l'Italia concederà una medaglia alla memoria. Mentre noi studenti scendevamo in piazza per Trieste italiana all'inizio degli anni Cinquanta, diede la vita per la Patria l'ultimo dei nostri irredenti.
    Leonardo Manzi aveva la mia età e come me aveva dovuto abbandonare Fiume. Morì da "profugo" a Trieste il 6 novembre 1953, ucciso dalla polizia civile (pagata dagli inglesi) sul sagrato della chiesa S. Antonio. Nelle sue mani stringeva forte un tricolore. Nelle sue tasche trovarono, arrossata di sangue, la tessera della "Giovane Italia".
 
 
STORIA DEL XX SECOLO N. 4. Agosto 1995.(Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

L'ESODO DEI FIUMANI I ricordi di un ragazzo
Claudio Schwarzenberg
 
 
    Nell'estate del '47 Mons. Ugo Camozzo, Vescovo di Fiume rivolse ai suoi concittadini l'ultima sua pastorale, dicendo, fra l'altro nella commozione dell'addio: «Fiumani, siate dignitosi nella vostra sventura. La vostra umiliazione è gloriosa, potete portarla a fronte alta e con nobile fierezza (... ). Per l'ultima volta accettate la paterna raccomandazione del vostro pastore di un tempo, siate buoni, e la Provvidenza non vi abbandonerà. (... ) Il Venerato Crocifisso di S. Vito sia per voi il vincolo spirituale che unisce i vostri cuori nella stessa fede e vita cristiana».
    Subito dopo il Vescovo divise in tre parti il tricolore italiano per eludere il controllo dei «titini» e poi, preso il breviario e salutato per sempre il Crocifisso miracoloso della nostra Cattedrale, lasciò, esule fra gli esuli, la sua amata città. E la lasciò per sempre.
    Fra i tanti che lasciarono la città, c'ero anch'io.
    Ero un ragazzino. Ero uno dei 350.000 che dovettero, per restare italiani, percorrere la via dolorosa dell'esodo.
Noi che abbiamo superato i cinquant'anni, di Fiume, a parte qualche monumento della città, angoli, mare, sole, barche, la chiesa, amici, volti cari di persone che non ci sono più, ricordiamo solo le brutture della guerra: gli allarmi, la povertà alimentare, le notti passate nei rifugi, i bombardamenti, il pianto, il dolore, la rassegnazione, la speranza.
    E poi la partenza verso un mondo nuovo, ignoto. Si pensava per poco tempo e fu per sempre. E poi quando ci chiamarono «sfollati», e le tessere, i documenti, i campi profughi, le cucine per i poveri. Perché poveri eravamo sul serio. Tutti i nostri beni erano rimasti nella nostra città abbandonata e si dovette, con il pianto nel cuore, cominciare da capo.
    E fummo soli.
    Alla classe politica italiana davamo fastidio perché eravamo il «grande problema» nei rapporti di buon vicinato e di equilibrio internazionale e nei momenti più difficili della nostra storia politica e quando si cercò di attuare un abbraccio fra mondo cattolico e mondo marxista, questa insofferenza nei nostri riguardi divenne ancora più evidente e per il solo fatto di essere esuli per motivi di italianità, fummo definiti fascisti.
    La storia di questo esodo è una storia terribile, una storia che la storiografia ufficiale non ha mai voluto affrontare perché agli uomini che, manipolando i «mass media», fanno cultura, ai nostri politici, ai governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi, dal dopoguerra ad oggi, questa storia non interessa.
    Anzi ha dato sempre e continua a dare molto fastidio.
    Da Fiume fuggirono 54.000 persone su 60.000 abitanti, da Pola 32.000 su 34.000, da Zara 20.000 su 21.000, da Rovigno 8.000 su 10.000, da Capo d'Istria 14.000 su 15.000. Perché abbiamo lasciato
la nostra terra?
    L'abbiamo lasciata per restare italiani e per sfuggire al terrore delle truppe partigiane slave, quelle che il mattino del 3 maggio 1945 occuparono la nostra amata città, gettandosi alla caccia di 000chiunque fosse, anche solo potenzialmente, contrario all'annessione alla Jugoslavia.
    Per capire meglio la nostra storia, forse è opportuno fare, a questo punto, quello che, nel linguaggio cinematografico, si chiama «flash back».
    E' una popolazione stremata quella che nei primi mesi del 1945 attende la conclusione del conflitto. L'ultimo, gelido inverno di guerra - la neve è arrivata fino a lambire il mare - ha lasciato il segno, moltiplicando le privazioni e i disagi. Gli abitanti dei maggiori centri urbani hanno visto precipitare le loro condizioni di vita, già severamente intaccate negli anni precedenti ed orimai largamente compromesse dalle difficoltà nei rifornimenti dei generi essenziali.
    Fame e freddo non sono però i soli motivi di angoscia. Fra gennaio e aprile del 1945 le incursioni si moltiplicano, e i continui allarmi, le corse precipitose nei rifugi, le lunghe permanenze nei ricoveri, punteggiano e frammentano l'esistenza dei cittadini.
Comunisti italiani, sloveni e croati condividono il giudizio secondo il quale la vittoria sul nazismo non conclude la lotta contro il fascismo, ma la fa semplicemente entrare in una fase diversa: il nemico si è trasformato, ma non scomparso, non è più l'occupatore tedesco da combattere armi alla mano, ma è l'Italiano, cioè chiunque cerchi di vanificare gli esiti della lotta appena conclusa, chiunque cioè si opponga all'instaurazione della società socialista, vale a dire - l'equazione è assiomatica - all'annessione alla Jugoslavia.
    A parole può sembrare soltanto un programma politico, anche se estremo, e probabilmente non pochi fra i suoi sostenitori lo intendono così: per le autorità jugoslave invece è la premessa teorica di una ondata di repressione sanguinaria, che per più di un mese si abbatte sull’intera regione, sconvolgendo migliaia di vite e aprendo nella memoria collettiva una ferita che rimarrà aperta per sempre. I responsabili degli organi di sicurezza jugoslavi non attendono che le opposizioni si manifestino: le danno prudentemente per scontate e quindi intervengono preventivamente, in modo da paralizzare fin dal primo momento le forze che con maggior pericolosità potrebbero intralciare i progetti del regime, fungendoda coagulo per insoddisfazioni e contrarietà diffuse.
    Ha scritto Amleto Ballarini, rievocando questi «giorni di passione», che il sole di maggio a Fiume, nel 1945, parve quasi un sole d'inverno. Per le vie deserte il silenzio pesante della paura raggelava i cuori nell'ansia di eventi attesi con occhi sbarrati dietro gli usci socchiusi e gli scuri abbassati delle persiane. Nell'aria immobile e fredda stagnava un odore di polvere, acre, come se il crepitare lontano, sempre più rado, di bocche da fuoco, alitasse ancora un fiato di morte sulla città abbandonata.
Dietro agli sbarramenti anticarro, messi sull'asfalto come croci di passione e di martirio, nel verde mesto del Calvario, qualcuno, uscito dal nulla, attendeva immobile. Fantasmi con la stella rossa, armati di fucili, erano sorti dal buio della notte per montare la guardia alla nostra desolazione.
    Erano quasi le otto del mattino del giorno tre.
    Verso le dieci calò giù dalla collina un lungo corteo d'uomini e muli che si snodò con passo incerto, senza richiami, e senza comandi, tra case che non s'aprivano, per vie che non si popolavano. Non un canto da bocche d'imberbi che stringevano tra le mani armi spianate contro il vuoto d'una città sconosciuta. Fogge diverse, ancora umide di boschi percorsi per interminabili giorni.
    Qua e là il grigioverde delle nostre divise.
    I fantasmi si persero il grido del benvenuto e una bandiera tricolore s'ammosciò sull'asta come un fazzoletto bagnato di lacrime. Sui muri delle case avevano scritto in fretta, con vernice vermiglia, traditi dalla materna fonetica slava: «Viva l'armata rosa! » e quell'armata che appariva più grigia che «rossa» non comprese l'errore e non colse il saluto.
    Nella terribile notte, fra il tre e il quattro maggio, mentre le truppe regolari di Tito assaporavano forse il primo sonno dopo la vittoria, l'organizzazione poliziesca chiamata O.Z.N.A., senz'anima e senza Dio, comandata da un certo Piskulic, abbattè le porte delle case indifese ed ebbe dai potenti licenza di uccidere.
    Accanto a Oscar Piskulic, vero e proprio macellaio, operarono con odio e con furore antifascisti di vecchia data, parte slavi e parte italiani, e perfino qualche fascista traditore che si era convertito al verbo del maresciallo Tito. I loro uomini allora facevano paura: Cucera, Klausberger, Surina, Scrobogna, Franchi, Manià, Faraguna e Vlach.
    Oggi suscitano solo disprezzo.
    Per tre giorni e per tre notti continuò la «mattanza». A Campo di Marte, a Cosala, a Tersatto, lungo le banchine del porto, in Piazza Oberdan, in Viale Italia, i cadaveri s’ammucchiarono e non ebbero sepoltura. Nelle carceri cittadine e negli stanzoni della vecchia Questura, nelle scuole di Piazza Cambieri, centinaia di imprigionati attendevano di conoscere la propria sorte senza che qualcuno si preoccupasse di coprire le urla degli interrogati negli uffici di polizia adibiti a camere di tortura.
Altre centinaia d'uomini e donne, d'ogni ceto e d'ogni età, svanirono semplicemente nel nulla. Per sempre. Furono i «desaparecidos» di Fiume per i quali non si muoverà e non si commuoverà mai nessuno.
    Dopo tre giorni, lo stesso comandante jugoslavo della piazza, maggiore Autun Kargacin, porrà freno alle stragi e darà modo alla Sanità militare di raccogliere i morti per portarli al cimitero.
    Gli avversari da mettere subito a tacere vennero individuati negli autonomisti, cioè coloro che sognavano uno Stato libero: ai furibondi attacchi di stampa condotti dalla «Voce del Popolo» si accompagna una dura persecuzione, che già nella notte fra il 3 ed il 4 maggio porta all'uccisione di Matteo Blasich e Giuseppe Sincich, personaggi di primo piano del vecchio movimento zanelliano, già membri della Costituente fiumana del 192l.
    Assieme agli autonomisti, negli stessi giorni e poi ancora, nei mesi che verranno, trovano la morte a Fiume anche alcuni esponenti del CLN ed altri membri della resistenza italiana, fra cui il noto antifascista Angelo Adam, ebreo, mazziniano, reduce dal confino fascista di Ventotene e dal lager nazista di Dachau, secondo una linea di condotta che trova riscontro anche a Trieste ed a Gorizia, dove a venir presi di mira dalla Polizia Politica jugoslava sono in particolare gli uomini del "Comitato di liberazione nazionale".
    La scelta appare del tutto conseguente, dal momento che sul piano politico il CLN è un'organizzazione direttamente concorrenziale rispetto a quelle ufficiali, delle quali è ben in grado di contestare l'esclusiva rappresentativa degli antifascisti italiani; pertanto, per i «titini» appare come l'avversario più pericoloso, sia perché potenzialmente in grado di diventare il punto di riferimento della popolazione di sentimenti italiani, sia in quanto l'eventuale accoglimento delle sue pretese di riconoscimento, quale legittima espressione della resistenza italiana, farebbe cadere uno dei pilastri principali su cui si regge l'edificio dei poteri popolari.
    Ma la furia si scatenò conferocia nei confronti degli esponenti dell'italianitàcittadina.
    Furono subito uccisi i due senatori di Fiume, Riccardo Gigante e Icilio Bacci, e centinaia di uomini e donne, di ogni ceto e di ogni età, morirono semplicemente per il solo fatto di essere italiani.
    Oltre 500 fiumani furono impiccati, fucilati, strangolati, affogati. Altri incarcerati. Dei deportati non si seppe più nulla. Adolfo Corradi era un modesto usciere di Palazzo Adria. Due poliziotti lo prelevarono da casa e lo portarono al cimitero di Cosala. Gli diedero una pala e lo costrinsero a scavarsi una fossa. Sarebbe stata una sbrigativa esecuzione, come tante altre, se quel «brav'uomo» non avesse avuto la stoffa e il sangue dell'eroe. Prima di morire usò la pala per spaccar la testa a uno dei suoi giustizieri ma l'altro lo fermò per sempre con una scarica di mitra a bruciapelo.
    Cercarono subito gli ex legionari dannunziani, gli irredentisti della prima guerra mondiale, i mutilati, gli ufficiali, i decorati e gli ex combattenti: Adolfo Landriani era il custode del giardino di piazza Verdi: non era fiumano, ma era venuto a Fiume con gli Arditi e per la sua piccola statura tutti lo chiamavano «Maresciallino».
    Lo chiusero in una cella e gli saltarono addosso in quattro o cinque imponendogli di gridar con loro: «Viva la Jugoslava! ». Lui, pur così piccolo, si drizzò sulla punta dei piedi, sollevò la testa in quel mucchio di belve, e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: «Viva l'Italia!».
    Lo sollevarono, come un bambolotto di pezza, e lo sbatterono contro il soffitto, più volte, con selvaggia violenza e lui ogni volta: «Viva l'Italia! Viva l'Italia! » sempre più fioco, sempre più spento, fin che il grido non divenne un bisbiglio, fin che la bocca colma di sangue non gli si chiuse per sempre.
    Qualcuno morì più semplicemente per aver ammainato in piazza Dante la bandiera jugoslava.
    Il 16 ottobre del 1945, un ragazzo, Giuseppe Librio, diede tutti i suoi diciott'anni, pur di togliere il simbolo di una conquista dolorosa.
    Lo trovarono il giorno dopo, tra le rovine di molo Stocco, ucciso con diversi colpi di pistola. A nessuno di questi eroi, semplici e sconosciuti, l'Italia concederà una medaglia alla memoria.
    Per molti di noi si presentò il dilemma: dittatura o esilio? Conservare la casa o finire in Italia nella baracca di un campo?         Restare e imporre a sé e ai propri figli la maschera dello slavo comunista, col pericolo di non saper mentire e di finire in una foiba o fuggire in una Italia sconfitta e mutilata? 54 mila fiumani, su 60 mila, scelsero l'esodo che ebbe così il significato di uno schiacciante plebiscito.
    Il 24 maggio 1945 «La Voce del Popolo» pubblica un comunicato nel quale si precisa che chi vuole rimpatriare in Italia deve presentare una domanda scritta, dichiarare i beni mobili e immobili che abbandona, depositare presso la Banca centrale «l’oro, le carte valori, le azioni, il denaro e tutti gli altri titoli» e potrà «portare con sé i propri indumenti personali fino ad un massimo di 50 kg, nonché l'importo di lire 20.000 per sé, quale capofamiglia, e ulteriori lire 5.000 per gli altri membri della famiglia che viaggiano con lui: tutto ciò non in contanti ma in buoni». Nonostante ciò, le partenze aumentano e rappresentano un impoverimento ed uno scacco per la sbandierata fratellanza italo-jugoslava.
    Coloro che abbandonano la città vengono definiti, in blocco, fascisti fuggiti all'epurazione, personaggi ambigui da raffigurare, in una significativa vignetta, come ladri di galline.
    E' un esodo di massa che dopo la firma del Trattato di pace avrebbe completato la definitiva trasformazione del volto della città. Il comunismo slavo non si presentò come liberatore, ma con le mani e il cuore avidi di sangue.
    Perfino i partigiani che avevano combattuto nella bande slave cercarono, di li a poco, rifugio in Italia. Particolarmente odiosa fu la persecuzione religiosa che assunse toni e aspetti d’incredibile ferocia e inciviltà. Dodici sacerdoti vennero prelevati in casa o in chiesa e passati per le armi. Altri furono percossi, malmenati, espulsi o condannati alla detenzione nelle carceri slave. Intere comunità monastiche si riversarono in Italia. Nei cimiteri si abbattono le croci e si scalpellano le scritte tombali in lingua italiana.     A Fiume viene demolita con la dinamite la chiesa del Redentore; a Umago si demolisce quella dell'Addolorata.
Ecco perché abbiamo dovuto lasciare la nostra terra.
    In molti italiani l'esodo suscitò rabbia e disprezzo. Su un quotidiano molto diffuso si poté leggere: «Non è il terrore titino alla base di questo, ma la campagna di menzogne antislave. Era la propaganda demagogica di Roma a spingere i polesi verso l'Italia, nazione nella quale i senzatetto e i disoccupati si contano a milioni, mentre al contrario la disoccupazione non esiste in Jugoslavia».
    Ad Ancona i profughi furono accolti dalle urla scomposte di persone che agitavano i pugni chiusi in risposta allo sventolio dei nostri tricolori.
    Diversi esuli, a Venezia, fecero l'esperienza traumatizzante dei dissacranti sputi dei comunisti allo sbarco della salma di Nazario Sauro, l'eroe istriano medaglia d'oro.
    Ecco come abbiamo lasciato la nostra terra.
    La maggior parte degli italiani non avvertì il significato di coloro che, nell'arco di dieci anni, decisero di rimanere cittadini italiani a prezzo dell'abbandono di ciò che avevano di più caro.
    Ma una cosa è certa: nonostante le cocenti delusioni in Italia, le irritanti incomprensioni, la torpida indifferenza di tanta parte -ufficiale e non - noi tutti ripeteremmo l'esodo, frutto della nostra formazione civile. Anzi, ne siamo fieri e compatiamo coloro che per ignoranza, faziosità ed egoismo non ci hanno compreso.
    A costoro possiamo solo dire: i fiumani non si arrenderanno mai e continueranno, anche nella via dolorosa dell'esilio, a rendere testimonianza viva di un'italianità tradita e contestata.
    Il nostro amore per l'Italia è stato consacrato col sacrificio del - sangue, prima, durante e dopo l'esodo.
Anche dopo.
    Leonardo Manzi aveva abbandonato Fiume a soli otto anni. Morì da «profugo» a Trieste il 6 novembre 1953 e i suoi anni erano ancora troppo verdi per perdere la vita.
    La Polizia Civile, pagata dagli Inglesi, lo abbatté a fucilate, sul sagrato della chiesa di S. Antonio, mentre stringeva tra le mani da bambino uno straccio tricolore che non voleva più raccattare nessuno.
 
 
NUOVO FRONTE N. 148-149 Novembre-Dicembre 1994  (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

POLA LA STRAGE DI SERIE B
Il 18 agosto di 50 anni fa morirono in un attentato 64 italiani
Mario Cabona
 
 
    Erano sobri i giornali una volta. Per la strage di Pola Vergarolla, alle 14,10 di domenica 18 agosto 1946 - sessantaquattro morti dilaniati sulla spiaggia dallo scoppio di ventotto mine navali -, la nuova Stampa di Torino del martedì seguente titolava, su tre colonne in basso: -”Sventura a Pola”. Come fosse caduto un fulmine... E, nel sommario, il pudico interrogativo: “Si tratta di un attentato?”.
    L'inchiesta risponderà di sì. Le mine, residuati bellici, erano state disinnescate da artificieri italiani. E reinnescate di nascosto da partigiani, pardon, in quel 1946 ormai da militari jugoslavi, che avevano eluso la sorveglianza delle truppe britanniche di occupazione.
    L'esplosione fu provocata nel momento di maggiore affollamento di italiani, riuniti per assistere alla coppa Scarioni di nuoto. Il messaggio era chiaro: o la valigia o la tomba. Mezzo secolo dopo, è di nuovo domenica 18 agosto, come allora. A Pola, stamane, una cerimonia ricorda quegli adulti mai invecchiati, quei bambini mai cresciuti. A Pola, ora Croazia, si commemorano italiani completamente dimenticati dall'Italia, fatti a pezzi e finiti in pasto ai gabbiani: a Parigi, proprio in quei giorni, De Gasperi rinunciava a chiedere il referendum che, forse, avrebbe salvato all'Italia la loro terra. In tal modo voleva evitarne un altro, imbarazzante, in Alto Adige.
    A Pola non c'è un orologio rimasto fermo alle 10,24 da usare come simbolo, genere stazione di Bologna. A Roma non c'è un vecchio comunista slavo da processare: una strage di italiani uccisi perché italiani non è un “crimine contro l'umanità”; non c'è nessuno a linciare carabinieri e magistrati; non c'è nessun Flick a placare nessuna Zevi; non c'è nessun Mentana, nessun Mimun, a riempire telegiornali di filmati e di foto consunti a forza di mostrarli.
    Non si consumano certo così le foto dei cumuli di cadaveri nelle foibe di Basovizza e Monrupino, scattate dal presidente del Gruppo speleologico monfalconese, Giovanni Spangar, e da lui ingenuamente consegnate, il 4 novembre 1957 a Redipuglia, all'allora ministro della Difesa, Paolo Emilio Taviani. Il quale gliele aveva chieste, insieme ai negativi, promettendo che le salme sarebbero state recuperate: “Bisogna fare presto!”, aveva detto. Invece sono sempre là sotto, mentre lui, decrepito, si aggira ancora per il Senato.
    Per una volta, diciamo noi quello che ci ripetono a ogni Eichmann, a ogni Barbie, a ogni Priebke: “Non bisogna dimenticare”. Anche se non c'è un film-tv come Olocausto, né un film vero come La lista di Schindler per loro, onoriamo noi la memoria di Carlo e Renzo Micheletti, di nove e sei anni, squarciati con la madre Caterina e lo zio Alberto, entrambi di trentasette anni, su quell'ultima spiaggia.
    Proponiamo noi una medaglia d'oro - magari dopo averla strappata a Rosario Bentivegna - per il loro padre, marito, fratello: medico, operò fino a notte per salvare i feriti prima di piangere sui suoi morti.
    Non bisogna dimenticare. Giusto. Ogni volta che vediamo in TV quel bambino del ghetto di Varsavia, Polonia, con le mani alzate, col volto impaurito sotto un grosso berretto, un soldato tedesco alle spalle, immaginiamoci anche questi bambini di Pola, Italia: Alberto Brandis (tre anni), Luciana Berdini (cinque), Norina Dinelli (sei), Vitaliano Muggia (dieci), le sorelline Marina e Graziella Maresi (tre e cinque anni), Nadia Giurina (undici), Silvana Marchi (cinque), Carlo Succi (sei), Aurelio Ricato (dieci), le sorelline Gianna e Licia Rocco (cinque e otto anni), i fratelli Gianfranco e Lucio Roici (dodici e quindici anni), Maria Luisa Niccoli (dodici), Edmondo Zelesco (sei), Sergio Vivoda (otto), fratello di Lino, l'autore dell'Esodo da Pola (Ed. Nuova Litoeffe, Castelvetro, 1989), l'unico libro in circolazione a ricordare la strage.
    Non bisogna dimenticare. Giusto. Non dimentichiamo i morti delle Ardeatine, ma neanche i morti militari e civili di via Rasella. Non dimentichiamo i giustiziati di piazzale Loreto dell'agosto 1944, ma neanche gli appesi di piazzale Loreto dell'aprile 1945. Passiamo il Ferragosto come fosse il 2 novembre, del resto a Pola è già successo.
 
 
IL GIORNALE Quotidiano

LA PASIONARIA DELL'ISTRIA TRICOLORE. MARIA PASQUINELLI UCCISE IL GENERALE INGLESE CHE DOVEVA CONSEGNARE QUELLA TERRA AGLI JUGOSLAVI
Giovanni Morandi
 
 
    Bergamo - Non si è pentita di averlo fatto, ma per tutta la vita ha pregato per l'uomo contro il quale quel giorno puntò la rivoltella. Non lo aveva mai visto prima di allora, lo riconobbe perché portava sul berretto una striscia rossa. Segno del suo grado, generale comandante le forze alleate in Istria, l'uomo che formalmente avrebbe consegnato quella terra agli jugoslavi. Lui, inglese, era sposato e aveva una bimba di pochi mesi. Lei, italiana, era un'insegnante, che con furore pari all'ingenuità amava l'Italia. In Africa aveva perfino dismesso la divisa da crocerossina e si era travestita da soldato per andare a combattere al fronte. Robin De Winton agli occhi di quella giovane donna era il simbolo della perduta libertà della terra istriana. A Pola lui era il massimo esponente dei Quattro Grandi. Lo uccise con tre spari, mentre entrava al comando; era il 10 febbraio del '47, il giorno della firma del trattato di pace a Parigi. Maria Pasquinelli fu condannata a morte da un tribunale alleato, poi consegnata agli italiani per non farne una martire e la pena commutata in ergastolo.
    Oggi ha 84 anni, vive con la sorella a Bergamo e non ha voglia di parlare del passato. 
Per quale motivo non vuole ricordare. Ritiene di aver fatto un errore?
    «Non voglio parlare perché il fatto è quello che è, ed è assolutamente inutile che io ne parli a posteriori. Il fatto è quello e ognuno lo interpreti secondo il suo punto di vista. Ovviamente se si fanno certe azioni si spera possano dare un vantaggio, mettiamo, storico, ma in ogni caso di quelle azioni si impadronisce l'opinione degli altri, di chi le approva e di chi le condanna. Per me volerne parlare è inutile»
Ma il caso in cui maturò quel fatto è ancora aperto e dunque ha un senso parlarne.
    «Certo che è ancora aperto, ma se fossi stata uccisa come era nelle mie previsioni non parlerei più e voi dareste le interpretazioni che vorreste».
Quanto tempo è rimasta in carcere?
    «Ho fatto tre anni a Perugia, sei o sette mesi a Venezia e il resto dei 17 anni, sette mesi e 20 giorni a Santa Verdiana a Firenze. Sono uscita nel '64, il 22 settembre».
Ed è subito venuta a Bergamo.
    «No, solo da sei anni. Mia madre era bergamasca e di questa gente io ho la spregiudicata schiettezza. Mio padre invece era marchigiano, di Jesi. Sono nata a Firenze con altri due miei fratelli, in via delle Panche, dove c'è l'Opera della Madonnina del Grappa di don Facibeni e don Facibeni veniva sempre a trovarmi in carcere. Lo fece fino a pochi giorni prima di morire. Fu lui che mi aveva battezzata, era molto amico di mio padre».
Le deve essere stato di grande aiuto.
    «Era un uomo molto semplice e molto caro. Venne a trovarmi anche il 25 aprile nel '58. Il giorno prima era stato sul Grappa, perché là era stato combattente, medaglia d'argento. Era andato a far visita al suo capitano che era gravissimo. Fu l'ultima volta che lo vidi. Morì in giugno. Sino alla fine rimasi in contatto con lui e gli facevo sempre celebrare una messa tutti i 10 del mese, per ricordare la morte del generale di Pola».
Mai avuto contatti con la famiglia De Winton?
    «Lui era sposato e aveva un bimba di pochi mesi. Ma queste notizie io le ho apprese dopo il fatto. Io non sapevo niente della famiglia di lui. E il parroco di Castelfiorentino, si chiamava don Dina, che era stato segretario del vescovo di Pola, monsignor Radossi, una volta venne in carcere a visitarmi e mi disse che era andato all'università di Friburgo, dove aveva conosciuto un sacerdote, che era il fratello del generale e questo fratello gli disse che a sua cognata, la moglie del generale morto, rincresceva che io stessi in carcere. Così mi disse».
Lei non ha mai cercato un contatto con la moglie?
    «No, perché di fronte a certi fatti le parole sono inutili. Comunque so di avere avuto la sua comprensione».
Come giudica la revisione storica che di recente è stata fatta anche dalla sinistra ex comunista sulla verità delle foibe e del problema istriano?
    «Come tutti sappiamo c'è stata la congiura del silenzio su tutta la storia del confine giuliano. In omaggio al comunismo italiano, nessun partito ha avuto il coraggio di affrontare l'argomento. Adesso si comincia a parlarne. Il silenzio è stato motivo di grande sofferenza per gli esuli e per i parenti di quelli che furono uccisi solo perché italiani. Dei 30 mila abitanti di Pola, 28 mila furono costretti a venir via. Questo dice tutto».
Con don Facibeni parlò di quel delitto?
    «Sapeva chi ero ma non abbiamo mai affrontato l'argomento».
Lei non aveva il bisogno di parlarne?
    «E perché avrei dovuto parlare con lui? Il problema l'avevo già risolto molto prima».
Inutile chiederle se abbia mai avuto il dubbio di aver sbagliato. Si ha l'impressione che lei non si sia mai posta la domanda.
    «A volte trovo qualcuno, che mi chiede: se tornasse indietro? Io rispondo: se tornassi indietro avrei la stessa età, sarei ancora a quei tempi, sarei ancora quella».
 
 
Marzo 1947. I VERBALI DEL PROCESSO: “Ho sparato contro il trattato di pace”
 
Questo il racconto che Maria Pasquinelli fece davanti ai giudici, nel corso del processo che si tenne nel marzo-aprile 1947, in cui fu condannata a morte.
     «L'ho colpito per protesta contro il trattato di pace e solo perché era il massimo rappresentante dei Quattro Grandi a Pola. Lo avevo visto, di spalle, una volta sola, il martedi precedente l'attentato. Non sapevo nulla di lui, non conoscevo nemmeno il suo nome. Quando lo colpii, il generale non ebbe l'impulso di scappare. Dapprima sparai due colpi, anche se mi parve di sentire un solo colpo. Lui ebbe l'impulso di voltarsi per vedermi in faccia. Ho nettamente presente lo sforzo che fece per voltarsi verso di me. Mi sfuggì... sparai il terzo colpo. Solo allora il generale barcollando si allontanò verso il comando. Rimasi sola. Mi accorsi che la sorpresa mette l'attentatore in enorme superiorità rispetto agli altri. Non intendo dire che i soldati presenti si comportarono da vili. Di fronte alla sorpresa dei colpi chiunque sarebbe potuto scappare. Tornò poco dopo un soldato, avanzò verso di me con il fucile puntato e l'evidente intenzione di non spararmi. Non si avvicinò direttamente. Ma camminava cercando quasi di aggirarmi. lo tenevo la rivoltella in mano, ma puntata verso terra. Gli feci cenno che non intendevo sparare, ma egli non poteva capire. Allora posai la rivoltella per terra. Mi prese e mi condusse al comando». [Giovanni Morandi]
 
 
Riportato da:  LA NAZIONE del 5 Febbraio 1997. Firenze.

DOMUS